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10/31/2017 by Alessio Farina Leave a Comment

Lo Streben nella dialettica di Io e Non-Io. Chi ha paura di Fichte?

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Lo Streben, per Fichte, è la tensione infinita dell’Io verso il superamento del Non-Io, il quale viene posto dall’Io stesso. Questa dinamica, radicata nella natura pratica dell’Io, rappresenta il movimento continuo verso la libertà e l’ideale, che però non può mai essere pienamente raggiunto.

Fichte lo streben nella dialettica pre-hegeliana.

Lo Streben, ovvero la tensione continua dell’Io verso il Non-Io, rappresenta l’essenza stessa dell’Io. È un concetto chiave per comprendere il pensiero fichtiano. Tuttavia, per capire davvero cosa sia lo Streben, bisogna partire da Kant e dalla Critica della ragion pratica. L’Io di cui parliamo è infatti un Io pratico, un Io che agisce, fa, opera concretamente. Solo così l’espressione “pone se stesso” acquista senso: pone perché agisce, e il suo agire è qualcosa di innato, istintivo, connaturato alla sua stessa essenza.

In questo testo trovi un riassunto del pensiero di Fichte =>


Se non hai una conoscenza di base dell’autore, ti consiglio di leggerne un’introduzione prima di proseguire.

Dall’Io-devo all’Io assoluto: la ragione è pratica

Ricordiamo brevemente che, per Kant, la volontà deve essere puramente pratica. A differenza dell’ambito teoretico, dove l’Io subisce la realtà esterna, l’Io pratico determina da sé il proprio imperativo categorico, il famoso “tu devi”. Qui risiede l’essenza della libertà: la capacità di stabilire autonomamente i propri principi morali.

Per Kant, poiché la libertà deve essere possibile (in quanto postulata dall’Io come volontà pura e non come desiderio), devono essere possibili anche le tre ipostasi della ragione:

  1. L’immortalità dell’anima,
  2. L’esistenza di Dio,
  3. L’esistenza di un mondo esterno.

Questi tre principi non sono dimostrabili ma sono sperimentati, vissuti come ideali regolativi. Bisogna agire come se l’anima fosse immortale, Dio esistesse e ci fosse una realtà oggettiva al di fuori di noi.

Finito e infinito: il concetto di limite

Immagina che ti dicano che l’universo è finito. A cosa penseresti? Forse a un muro, una linea o un confine che lo delimita. Ma se esiste un confine, non puoi fare a meno di immaginare anche un “oltre”. Qualcosa al di là, di cui non sai nulla, ma che c’è.

Ecco, per i filosofi romantici il rapporto tra finito e infinito funziona così. Quando poni un limite, sei costretto a pensare a qualcosa che lo superi. Tuttavia, per mantenere il limite come tale, si può soltanto tendere verso di esso senza mai raggiungerlo. È lo stesso principio della freccia di Zenone o degli infiniti poligoni inscritti in un cerchio: puoi avvicinarti sempre di più, ma non lo raggiungerai mai completamente.

Per Fichte, questa tensione infinita è la condizione dell’azione umana. Solo tendendo all’ideale regolativo, senza raggiungerlo mai, possiamo distinguere un’azione migliore da un’altra.

Lo Streben come essenza dell’Io

Questo tendere verso l’ideale è lo Streben. In tedesco significa “tendere” o “sforzarsi”. Era già presente in Kant, dove la ragion pratica tendeva verso le ipostasi della ragione (Dio, anima, mondo).

Ma per Fichte è l’Io pratico, concreto, a sperimentare questa tensione. L’Io deve agire come se l’anima fosse immortale, Dio esistesse e la libertà fosse possibile. Questo come se è la struttura portante dello Streben: un ideale irraggiungibile, ma essenziale.

Dalle ipostasi della ragione al Non-Io

Abbiamo insistito sulla ragion pratica di Kant perché, sebbene Fichte concepisca un rapporto diverso tra Io e Non-Io, la struttura dello Streben resta la stessa. Per Fichte, l’Io ha una necessità pratica di eliminare la differenza tra sé e il Non-Io per affermare la propria libertà assoluta.

Tuttavia, l’Io fichtiano è un Io assoluto, che genera da sé l’opposizione. Nell’atto stesso in cui l’Io afferma la propria identità (Io=Io), pone anche il suo contrario: il Non-Io. Perché? Perché ogni affermazione implica una negazione: “omnia determinatio est negatio”.

Il gioco degli opposti: porre e contrapporre

Facciamo un esempio. Se ti dico “buono”, sai immediatamente qual è il suo opposto: “cattivo”. È una proprietà del pensiero legare i concetti al loro contrario. Anche inventando una parola nuova, come “frandicite”, potresti immaginare il suo opposto: “non-frandicite”.

Lo stesso avviene per l’Io assoluto. Nel momento in cui l’Io pone se stesso, pone anche il Non-Io, qualcosa di totalmente altro, di cui non sa nulla. L’Io è quindi un atto puro che afferma e contrappone.

La tragedia dell’Io

E qui arriva il problema. L’Io, ponendo il Non-Io, crea una differenza che è costretto a superare per realizzare la propria libertà. Ma questa differenza non può mai essere del tutto eliminata. È come il poligono che non diventerà mai un cerchio, per quanti lati abbia.

L’Io tende verso il Non-Io come un amante verso l’oggetto del proprio desiderio, in una tensione infinita e irrisolvibile. Questa è la tragedia dell’Io: non può fare a meno di creare il Non-Io e non può fare a meno di cercare di superarlo, senza mai riuscirci.

In questa tensione infinita, però, si gioca tutta la libertà umana. Lo Streben non è solo un limite, ma anche la condizione stessa dell’azione. Fichte trasforma così la tensione tra Io e Non-Io in un motore inesauribile, che spinge l’Io verso l’infinito.

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Filed Under: Chi ha paura di? Tagged With: dialettica trascendentale, Fichte, io, NON-IO, ragion pratica, streben, volontà

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