La mia divisa da infermiere: un racconto di cura e fragilità
Oenso ai tanti “grazie” ricevuti di recente, così rari nei dieci anni precedenti. Siamo stati chiamati “eroi” e, finalmente, qualcuno si è accorto che esistiamo. È successo perché, travolti dagli eventi, avete capito che è la mia divisa da infermiere a prendersi cura di voi, vedendo il vostro dolore e non solo un organo da curare.
Io non sono un medico. Non curo malattie, ma mi prendo cura delle persone, anche quando non c’è più nulla da fare. È la mia mano che vi tocca per pungervi, pulirvi, massaggiare un cuore fermo o medicare una ferita. È il mio sguardo che incontrate nell’umiliazione della perdita. Sono io che arrivo quando non vorreste e tocco quando non volete essere toccati.
La mia divisa da infermiere: un racconto di identità e protezione
Era tutta bianca con le strisce blu, la mia divisa da infermiere quando ero ancora studente. Neanche a farlo apposta, ricordava l’abito delle suore di Madre Teresa, a cui fui legato per anni. Poi diventò blu con una striscia gialla: pensavo indicasse un grado tra noi infermieri, ma in realtà era solo questione di misure. Oggi la mia divisa da infermiere è bordeaux, ma a volte del colore che dico io. La ricevetti il primo giorno al poliambulatorio, quando iniziai questa avventura. Che nessuno lì la indossasse avrebbe dovuto farmi riflettere. Eppure, il primo giorno la misi e sembravo Calimero. Il secondo giorno, la accantonai.
Oggi, al pronto soccorso, la mia divisa da infermiere torna addosso. La indosso con il mio fonendoscopio e la penna nel taschino, come il primo giorno, ma con qualche anno di esperienza in più.
Perché ho scelto di essere infermiere?
Perché ho scelto di fare l’infermiere? Una domanda che mi fanno spesso. Perché un filosofo ha deciso di fare un passaggio così insolito? La risposta è semplice: amo le relazioni, mi piace educare, e voglio essere un punto di riferimento per i più deboli.
La mia divisa da infermiere oggi racconta chi sono.
La divisa: come un costume da supereroe
Come un costume per i supereroi, la mia divisa da infermiere non serve a nascondere la mia identità, ma a crearla. Dentro quella divisa mi sento protetto: dai malumori, dalle ansie e dalle angosce dei pazienti. È come un impermeabile sotto la pioggia: la mia divisa da infermiere mi protegge da tutto ciò che i pazienti riversano su di me. Mi difende dai liquidi biologici, dagli odori, dalle fobie, dalle lamentele e, a volte, dall’egoismo.
Ascolto le loro paure, le lamentele per la troppa fila o la rabbia per un sistema sanitario che sentono ingiusto.
La malattia e la giustizia
Ma la malattia non conosce giustizia. La malattia è democratica: non sa cosa siano giustizia o grazia. Raramente ho incontrato gentilezza, ma quando accade è straordinario. Tuttavia, la mia divisa da infermiere trattiene le parti più difficili del mio lavoro, impedendo che mi restino addosso.
L’egoismo del paziente e la fragilità umana
Il paziente è egoista. Quando stiamo male lo diventiamo tutti. È umano. Il paziente si sente al centro, e la sua famiglia lo circonda di attenzioni. Ma in ospedale non si può pretendere di essere gli unici.
Al paziente spesso non interessa quanto tu sia stanco o oberato. Percepisce solo l’ingiustizia della sua situazione, vedendoti sano mentre lui ha perso indipendenza.
La malattia svela le dinamiche familiari: il figlio con la madre, la moglie che conosce ogni dettaglio del marito, l’anziano che arriva in ritardo con i documenti in disordine. Ho sentito più lamentele che ringraziamenti, ma tutto mi scivola addosso, protetto da la mia divisa da infermiere.
Supereroi e pazienti: un confronto
Anche i supereroi affronterebbero lo stesso. La gente chiederebbe: “Perché lui e non me? Dov’è la giustizia?”. Salvandoli, si lamenterebbero solo per la macchina distrutta. Se non li salvassi, ore e ore a discutere come un rigore sbagliato. Ma dimentichiamo che il mondo, come un pallone, è tondo e imprevedibile.
Siamo illusi di controllare la vita, convinti di essere speciali. L’unica verità che ho trovato, dopo anni di filosofia, è che moriamo.
La morte e la bugia della cura
La morte non è una malattia, è il nostro destino. Ma ci raccontiamo storie, come quella che tutto ha una cura. È questa la radice dell’arroganza del malato e insieme della sua frustrazione.
Tutto questo si deposita ogni giorno su la mia divisa da infermiere.
La scrollo via a fine turno, ma me la porto dentro. Per chi vive sotto le lenzuola di un ospedale non importa se è mattina o notte, domenica o Natale. “È il tuo lavoro”, mi dicono. Ma sotto la mia divisa da infermiere sono carne e ossa anche io.
La fragilità: un incontro autentico
Ho ricevuto pochi grazie e non li cerco. La mia divisa mi protegge anche da quelli: lusinghe e lamentele. Dietro tutto resta una parola chiave: fragilità.
Il paziente è fragile, costretto a fidarsi in un ambiente a lui ostile, mentre io vivo quelle corsie come casa mia. La mia divisa da infermiere protegge entrambi, da lui e da me. Alla fine, tra le nostre fragilità ci vediamo davvero, autentici.
La mia divisa da infermiere non nasconde, ma svela. Non copre, ma dispiega chi sono.
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