Amore e dipendenza
Ci guardavamo con un sorriso mentre sapevamo che toccava dirsi addio. La luce opaca di quel pomeriggio di inverno annebbiava i pensieri oltre che la vista e il freddo permetteva a noi di coprire vicendevolmente le nostre nudità. Non come si faceva una volta, l’uno all’altro, ma ognuno per sé in modo non da difenderci reciprocamente, ma da proteggersi l’uno nei confronti dell’altro. La verità è che per la prima volta provavamo vergogna reciproca per quello che eravamo stati senza l’altro. Quell’incontro presto si trasformò in uno strano intreccio di intimità e distacco, di ostentazione e pudore. Eravamo cambiati tanto e questo lo sapevamo, lo vedevamo entrambi chiaramente eppure avremmo voluto nascondercelo.
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La vidi da lontano arrivare con il suo cappottino beige,
Erano mesi ormai che non ci si incontrava. L’avevamo fatto e rifatto tante di quelle volte ormai. Ci lasciavamo per poi ricominciare. Convinti che bastasse un bel reset per cancellare quello che prima guastava il sistema, per fare in modo che tutto filasse liscio. Le ragioni per cui la lasciavo non me le ricordo neanche più. Uno strano senso di asfissia mi tormentava ogni volta che la mia decisione pareva definitiva. Come in una pentola a pressione avevo solo bisogno di togliere il tappo perché l’aria uscisse via e cominciassi a stare meglio.
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Forse c’era rabbia per quella prima volta in cui fu lei a lasciarmi
senza che io bene avessi capito perché. Eravamo ancora al liceo, mentre io mi sentivo preso dai miei tormenti e i molti perché, lei, appresi dopo, combatteva la sua personale guerra contro la fame. Questo era: due perfetti sconosciuti che si incontravano, sconosciuti due volte, la prima a se stessi e l’altra verso gli altri. Come poteva nascere qualcosa di buono? Eppure nacque allora e durò per qualche mese.
Fu amore improvviso, passionale, invadente ogni aspetto della mia vita. Quello era il primo grande problema, il tempo. Un amore così lungo richiedeva del tempo che difficilmente io potevo dare, preso com’ero dallo studio, da una famiglia oppressiva e qualche paturnia di troppo.
Quel modello di vita che pensavo allora lei chiedesse non potevo darglielo, non a lungo. Uscite la sera, discoteche, lunghe passeggiate potevano solo essere un’eccezione e non la regola. Quanto quel mondo a lei per prima piacesse ancora non lo so. Appresi più tardi con sgomento che soffriva con tutto il suo corpo, che lottava contro la sua fame.
Dovevo capirlo che se aveva scelto me era perché infondo desiderava altro,
ma ero piccolo anche io e come sempre succede quando si interpretano i pensieri degli altri spesso ci si finisce col mettere i propri. Ero io che desideravo probabilmente essere altro. Desideravo essere altro da me. Mi volevo più sicuro, sportivo, determinato, intraprendente e maschile. Ed invece ero debole, sempre indeciso, timido, poco aggressivo e sempre nel mio mondo. Come potevo piacerle se non piacevo neppure a me.
Non ricordo come fu che quella mattina non andammo a scuola. Di quei pochi gesti non ricordo quasi nulla, se non la sua di intrapendenza e il mio profondo disagio, un po’ per la situazione, l’altro po’ perché sapevo che da quel gesto non si poteva tornare indietro.
Eravamo legati per sempre, come in effetti lo fummo,
Un po’ per caso, un po’ per destino mi ammalai e dovetti stare più di un mese a casa. Un mese in cui ci sentivamo al telefono, con tutte le difficoltà di farlo in una famiglia che da sempre aveva osteggiato quella relazione.
Immaginavo con ansia quell’incontro, cercavo di capire in quali luoghi potesse avvenire quell’appagamento carnoso. Tante cose erano andate male, a cominciare dal fatto che non avevo toccato libro per un intero mese, mentre voglia di studiare non ne avevo. Ma tutto si trasferiva lì, nel desiderio antico di vita, che mi chiamava a lei. C’era qualcosa di strano però in lei. Un mese era sembrato un’eternità, qualcosa gli altri avevan capito prima di me e poi compresi anche io. Era già finita, senza che avessi capito il perché. Era finita nel peggiore dei modi, perché lei si era riavvicinata alla sua prima fiamma.
Capivo poco ma ritornando tra i banchi di scuola era di fronte a me,
Come sempre succede quando si sta male in questo modo, accade improvvisamente che ci si sveglia dal sonno, ci riprende dallo stordimento e si ritorna lucidi. D’improvviso passò tutto, mesi di pianto, di lacrime, di confusione, di vino mi avevano solo dato la consapevolezza di quella che restava anche allora una sconfitta, ma che infondo andava bene così.
Lei aveva scelto il meglio che si potesse avere ed io ero il peggio che si potesse essere, però era giusto così. Mi ero arreso all’evidenza e nell’arrendermi avevo improvvisamente trovato pace. “Del tonfo di mille cadute son pieno” le scrissi allora così e in quell’immagine mi acquietai: non ero io e non toccava a me starle accanto.
Fu così che andai nel nostro giardino allora a scriverle quelle due parole che per noi erano significate tanto:
“se fossi d’aria…”.
Fu proprio allora, in quella mattina solinga, mentre tutti scioperavano e probabilmente lei era uscita con lui che mi ritrovai nel nostro giardino, quello degli incontri d’amore a graffiare un albero per lasciare a lei e a me un messaggio. Fu quello il gesto che in me chiuse un periodo, un incantesimo e mi risvegliò dal sonno.
L’amore però è crudele nella sua generosità
Quello fu l’unico giorno in tutta la mia vita in cui marinai la scuola per stare con lei. Girammo il centro, chiacchierammo come si faceva ai tempi in cui eravamo solo amici. Fu l’unico giro in cui concessi al ragazzo di mentire, di oltrepassare il confine, di osare, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Fu un bacio, uno sfiorare di labbra, fu la libertà assoluta dell’amore, un ricordo che vale l’intera vita ancora adesso. Fu a quel modo che ricominciò qualcosa che invece avrebbe dovuto finire lì. Non sapevo dirmelo, non volevo accettarlo. Fu però una strada in discesa che sballottato come ero stato non mi fece capire niente. Mi ero diplomato ed era finito un periodo lunghissimo della mia vita. Il mio giardino sempre verde, la scuola che tanto mi aveva protetto e rassicurato era finita per sempre. Ci sarebbe stata l’università, ma non sarebbe stata la stessa cosa.
L’estate corse strana fu un lasciarsi e riprendersi, furono addii lunghi, convinti.
Non era più amore, era solo dipendenza, lo sapevamo, ma non potevamo farci nulla. Ricadevamo nella tentazione. Quel bacio infondo era solo stata la prima dose, estasiante e avvilente il minuto dopo.
Eravamo arrivati a quel punto, un anno era già passato, era inverno ed era il nostro ultimo incontro.
Non ricordo nemmeno una parola di quello che ci siam detti, nemmeno una sillaba. Ho solo in mente l’immagine di me tronfia perché mostravo evidenti i segni del nuovo me, ricordo i suoi occhi, infiniti come il mare, profondi come un dolore senza fine, muti come l’urlo che non puoi proferire. C’eravamo avvicinati e allontanati tante di quelle volte, avevamo provato e riprovato a ricominciare senza posa. Due anni in tutto erano passati.
Quel bacio tanto era stato intenso e lungo che aveva prolungato sin lì il dolore, ma più di così non si poteva. Bisognava far qualcosa, bisogna dimenticare tutto, cancellare con violenza quello che c’era stato prima, riporre nei cassetti eterni della dimenticanza tutte le parole d’amore. Occorreva mettere un punto, essere decisi, temerari, improvvisi. Ricordo con esattezza il momento in cui finimmo di parlare.
La strada che ci divideva mentre lei camminava in una direzione e io percorrevo quella opposta all’amore.
Ricordo il momento in cui mi voltai e vidi quella figura un tempo gigantesca diventare quasi un puntino. Alzai la mano per salutarla, la sventolai come si fa con il fazzoletto bianco in segno di arresa, lei la vide comunque e alzo la sua. Era fatta, avevamo capito entrambi, ce lo eravamo detti al di là delle parole. Fu l’addio più lacerante che ricordo, la fine di mille inizi. Fu così con una mano alzata che chiudemmo quel bacio che pareva quasi eterno.