AMIDO E FORZA DI UNA FARINA
Chissà perché quando ci preoccupiamo della digeribilità di una farina ci vengono in mente subito le proteine e non gli zuccheri. Eppure una farina contiene certamente più carboidrati (60-80%) che proteine (9-15%). Di questi solo una minima parte tuttavia sono zuccheri semplici (GLUCOSIO) il resto è AMIDO.
Basta un poco di zucchero, ma la pillola va giù?
L’amido è un prodotto che non viene facilmente digerito allo stato naturale né dai batteri (che si nutrono solo di zuccheri semplici), né dal nostro organismo. Questo perché, per la sua struttura “cristallizzata”, gli enzimi pancreatici non sono in grado di aggredirlo, predisponendolo all’assorbimento. Per poterlo assimilare è dunque necessario che questo venga COTTO con acqua, ovvero, GELATINIZZATO.
Si fa presto a parlare quindi di indice glicemico dell’amido. Sappiate piuttosto che, anche se per ragioni diverse, mangiare una patata appena cotta non è come mangiarla il giorno dopo, mangiare pasta al dente non è come mangiarla stracotta, mangiare il pane appena sfornato non è come mangiarlo qualche giorno dopo e così via.
Non tutto l’amido che attraversa l’intestino viene cioè assorbito dal nostro organismo. Parte di esso si deposita piuttosto nel colon dove diventa la colazione, il pranzo e la cena di milioni di batteri fermentanti. Questi per un verso produrranno gas, per altro richiameranno liquidi dalle pareti intestinali. Gonfiore intestinale, flatulenza, arsura notturna e qualche volta diarrea potrebbero dunque dipendere da una cattiva digestione degli amidi non correttamente gelatinizzati piuttosto che del glutine.
Amido: Amilosio e Amilopectina
L’amido presente nei diversi alimenti non è tutto uguale. E’ composto infatti da due molecole: l’AMILOSIO e l’AMOLOPECTINA. Nel corso della sintesi all’interno delle cellule vegetali, l’amido è depositato in particelle dette GRANULI. In questa forma l’amido è scarsamente solubile in acqua ed scarsamente aggredibile dagli enzimi. Le diverse caratteristiche dell’amido dipendono tuttavia dalla una diversa combinazione tra amilosio e amilopectina che ne determinano il diverso grado di ramificazione e dunque le diverse caratteristiche.
In particolare:
- Mais: amilosio 24%, amilopectina 76%
- Mais ceroso: amilosio 0,8%, amilopectina 99,2%
- Hylon VII (mais): amilosio 70%, amilopectina 30%
- Patate: amilosio 20%, amilopectina 80%
- Riso: amilosio 18,5%, amilopectina 81,5%
- Tapioca: amilosio 16,7%, amilopectina 83,3%
- Frumento: amilosio 25%, amilopectina 75%
Le molecole di amilosio, e in misura minore quelle di amilopactina hanno la tendenza a raggomitolarsi, un po’ come succede a noi con il filo delle cuffiette dell’auricolare. In questa forma l’amido non è solubile in acqua e non può quindi essere aggredito dagli enzimi amilasici, che sono per l’appunto enzimi idrolitici (che necessitano acqua per operare).
La gelatinizzazione degli amidi
A contatto con l’acqua e ad una temperatura superiore ai 55 gradi l’amido perde la sua struttura parzialmente cristallizzata aprendosi e cominciando ad assorbire acqua. Diventa perciò un composto gelatinoso che può essere facilmente aggredito dagli enzimi.
A questo punto maggiore sarà la sua struttura ramificata e dunque la percentuale di AMILOCPECTINA e più facilmente sarà scomposto, in quanto gli enzimi avranno più punti dove operare.
Questa è la ragione per la quale amidi parzialmente cotti, sono anche parzialmente gelatinizzati e quindi più difficili da digerire. La patata per esempio se mangiata cruda, costituirà solo massa inerte che transita nell’intestino, sarà ben digerita se ben cotta e se ne assorbirà meno quando è lasciata raffreddare. Questo perché l’amido gelatinizzato è soggetto anche al fenomeno inverso di RETROGRADAZIONE. Ovvero raffreddandosi recupera parzialmente parte della sua struttura originaria.
Un pò come i capelli ricci che possono essere allisciati, ma al primo cenno di umidità riprendono la loro forma, in particolare l’amilosio recupera parzialmente la loro struttura ramificata. Guardando le percentuali di amilosio e amilopectine contenute nelle diverse tipologie di amido capiamo anche la digeribilità (e dunque anche il diverso indice glicemico) dei diversi alimenti una volta raffermi.
Per concludere questa parte più dedicata ai processi digestivi dell’amido, vi sarà utile sapere che un altro elemento che ostacola la digestione dell’amido da parte degli enzimi pancreatici è proprio la presenza di fibre. La cellulosa è infatti anch’essa una concatenazione di molecole di glucosio e la sua presenza rallenta l’assorbimento dell’amido che viene così trascinato nelle parti più basse dell’intestino.
Falling Number e attività alfa-amilasica
Bene abbiamo visto sia la struttura dell’amido che i suoi rapporti difficili con i nostri processi digestivi. Ma come si comportano gli amidi quando sono ancora raccolti in granuli nella farina?
Sarà certamente utile sapere che anche la farina contiene i suoi enzimi. In particolare il germe del chicco di grano contiene alfa e beta amilasi, cui si aggiungono maltasi e isomerasi. Sono enzimi idrolitici, che hanno cioè bisogno di acqua per attivarsi. Risultano utili nei processi di GERMINAZIONE, ovvero di trasformazione del chicco in germoglio. L’amido è infatti il modo con cui la pianta immagazzina glucosio per poi liberarlo quando è il momento di far crescere il germoglio.
La farina avrà quindi una sua propria capacità enzimatica che misuriamo attraverso uno strumento che determina L’INDICE di attività enzimatica, detto anche indice DI CADUTA o FALLING NUMBER (FN). Il valore è chiamato anche indice di Harberg in onore di chi lo ha inventato: gli scienziati Harberg e Perten.
La farina viene sciolta in acqua e inserita dentro una provetta che viene scaldata in modo che il composto gelatinizzi. L’asticella dell’agitatore (inserita all’interno della provetta) agita il composto. Quando l’agitatore si ferma il tempo che impiega per raggiungere il fondo sarà determinato dalla viscosità del campione. Questo tempo è misurato in secondi e dipenderà dall’attività di uno degli enzimi presenti nella farina: l’alfa-amilasi.
In altre parole, maggiore sarà la germinazione del grano, più alta sarà l’attività alfa-amilasica e più il composto sarà liquido. Più bassa sarà la viscosità, più velocemente l’agitatore cadrà. In conclusione più è BASSO il FALLING NUMBER più ALTA sarà l’attività enzimatica della farina.
Gli enzimi della farina
Il Falling Number è un test che in realtà misura in particolare la presenza delle alfa-amilasi ed è nei fatti un indice di liquescenza e fermentabilità degli impasti. Più è basso più gli impasti saranno appiccicosi e veloci in fermentazione. Cerchiamo di capire il perché.
Gli enzimi naturalmente contenuti nelle farine sono
- – Alfa-amilasi: Sono come delle forbici che tagliano “a caso” le catene di glucosio di cui è composto l’amido dall’interno, che viene così scomposto in DESTRINE (catene di almeno 4 unit di glucosio). L’amido viene quindi spezzettato dall’azione delle alfa amilasi in sub-unità che hanno una minor capacità di assorbire acqua e sono più facilmente aggredibbili dalle beta-amilasi.
- Beta-amilasi: Sono al contrario capaci di “tagliare” la catena glucidica dalle estremità e producono piccoli agglomerati di MALTOSIO (due molecole di glucosio). La loro azione di scomposizione dell’amido è dunque più lenta e selettiva
- Glucoamilasi: Scompongono infine il maltosio in molecole di glucosio semplici (di cui si nutrono i lieviti e i batteri).
Eccesso di α-amilasi: Le alfa-amilasi rendono l’impasto più colloso, difficile da legare e privo di consistenza. La lievitazione sarà accelerata. Questo perché la scomposizione in zuccheri è più rapida e questo accelera il metabolismo di lieviti e batteri.
Eccesso di β-amilasi: Impasto più coriaceo e con una lievitazione rallentata, in certi casi quasi collassata, altre volte gestibile.
Amidi danneggiati e forza della farina
Sulla forza delle farine che utilizziamo non è solo il glutine a giocare un ruolo. Quando apprezziamo la consistenza di un impasto occorre infatti valutare che se per un verso è il glutine a dare struttura all’impasto, per altro verso è l’amido a costituirne il contenuto principale. Paragonando l’impasto a un pilastro di cemento armato, potremmo dire che il glutine costituisce l’anima in ferro, mentre la calce di cui è riempito è proprio l’amido e i suoi sottoprodotti.
Dalla sua consistenza dipenderà in grande misura la qualità dell’impasto finale. Quelli che normalmente chiamiamo processi di “maturazione”, distinguendoli dalla lievitazione vera e propria (aumento di volume), sono quindi processi “autodigestivi”. Gli enzimi amilasici naturalmente contenuti nella farina cominciano in presenza di acqua a “digerire” parte dell’amido presente nella farina.
Come visto però gli enzimi, siano essi di origine animale che vegetale, non sono in grado di aggredite il granulo di amido. Come con delle forbici non riusciremmo a tagliare un intero gomitolo di lana, proprio perché tutto raccolto in una palla, gli enzimi non riescono ad aggredire i granuli di amido nella loro forma originale, a meno che questi non vengano appunto GELATINIZZATI ovvero cotti in ambiente acquoso.
Ma se così stanno le cose cose, perché continuiamo a parlare di enzimi della farina negli impasti?
Questi infatti non dovrebbero essere in grado di agire sull’amido a crudo. Occorre tuttavia sapere che i processi di macina rompono parzialmente i granuli di amido. Parliamo quindi di una percentuale di amido danneggiato che si agirà intorno al 10-15% e che dipende più da come il grano viene macinato che dalle caratteristiche del grano in sé.
Il processo di “auto-digestione” dell’amido riguarderà soltanto questa percentuale di amido DANNEGGIATO (anche se lo lasciamo maturare i soliti vent’anni nel deserto). Il resto dovrà aspettare la cottura e i nostri enzimi pancreatici.
Quello su cui però occorre riflettere è che i processi di macinazione restituiscono una percentuale di AMIDI già parzialmente DESTRINIZZATI, ovvero già scomposti in destrine. Percentuale che oltre a influire sul Falling Number condizionerà la consistenza dei nostri impasti.
Esattamente come un eccesso di alfa-amilasi produce impasti collosi e liquescenti, perché produce un eccesso di DESTRINE, un eccesso di granuli danneggiati produrrà il medesimo risultato per la medesima ragione (eccesso di destrine).
In altre parole a determinare le proprietà reologiche della farina (W, P/L ecc.) non è soltanto la quantità e la qualità del GLUTINE presente nella farina, ma anche l’attività amilasica della stessa, da cui dipenderà come visto la velocità di fermentazione e la qualità dell’impasto.
Salve se voglio fare la prova a gelatinizzare un impasto, quindi porto l’acqua a 60° ed impasto ,il procedimento è uguale come nel realizzare un impasto normale? Cioè stessa procedura mettendo lievito sale e olio? Oppure viene fatta solo ed esclusivamente acqua e farina? E dopo la realizzazione ovviamente avrà una certa temp l’impasto, dovrò lasciarlo a temp ambiente per ristabilire la temp o potrò metterlo in frigo? O avverrebbe la retrogradazione dell’amido e quindi non il risultato originale?
La temperatura necessaria per la gelatinizzazione varia a seconda del tipo di amido. In genere, si porta l’acqua a ebollizione e la si versa direttamente sulla farina, rispettando un rapporto di 1:3 o 1:4. Una volta versata l’acqua bollente, la temperatura del composto scende rapidamente, ma rimane comunque sufficiente per avviare la gelatinizzazione.
La farina gelatinizzata assorbe molta acqua, ma non lasciarti ingannare dalla consistenza: una parte di quest’acqua rimane “libera” all’interno dell’impasto e va considerata come parte integrante della ricetta. È importante sapere anche che l’impasto gelatinizzato perde completamente la maglia glutinica.
Alla luce di queste considerazioni, è consigliabile utilizzare percentuali relativamente basse di farina gelatinizzata rispetto al totale, orientativamente tra il 10% e il 15%. Ad esempio, su un chilo di farina, si possono gelatinizzare fino a 150 grammi, utilizzando tra e 450 ml e 700 ml di acqua.
Come accennato, l’acqua usata per la gelatinizzazione va conteggiata nel totale dell’idratazione dell’impasto. Se, per esempio, desideri un’idratazione al 70%, dovrai aggiungere solo altri 150 ml di acqua per ogni chilo di farina sei i rapporti sono 1:3 oppure non metterne completamente per 1:4. Laddove la gelatinizzazione avviene a mezzo acquoso più acqua usi più questa avverrà correttamente.
Cioè su 1 kg di farina gelatinizzo 150 grammi i farina impastando questi 150 g con 700 ml di acqua? 😶 non riesco a seguirti scusami
Quindi su 10 kg di farina fino ad 1.5 kg lo posso gelatinizzare, e questo 1.5 kg lo gelatinizzo con il 70% di acqua? Che a sua volta lo detrarrei dal quantitativo totale di acqua dell’impasto? Grazie anticipatamente per la risposta
Mi dispiace, perché di solito preferisco costruire le ricette “a sensazione”, piuttosto che affidarmi a dosi precise. Ma cercherò di spiegare meglio come va fatto il calcolo, partendo da una premessa importante: la farina e l’acqua utilizzate per il water roux (o gelatinizzazione, che dir si voglia) fanno parte della ricetta a tutti gli effetti.
Come ti dicevo, la gelatinizzazione è un processo che avviene in ambiente acquoso. Questo significa che più acqua c’è, più il processo sarà efficace. In alcune ricette si trovano rapporti 1:1 tra farina e acqua, ma io consiglio un rapporto minimo di 1:3, se non superiore. Inoltre, suggerisco di utilizzare una quantità di farina per il water roux pari al 10-15% del totale della farina prevista dalla ricetta. L’acqua usata nel roux, anch’essa parte dell’impasto, va sottratta dal totale previsto nella ricetta.
È importante sottolineare che il composto gelatinizzato è una massa “inerte” che si aggiunge all’impasto: non sviluppa glutine, quindi rende più difficile l’incordatura. Va da sé che più water roux si utilizza, più la farina dell’impasto deve essere di forza per compensare questa perdita di struttura.
Facciamo un esempio pratico, con un impasto base:
Impasto base
1 kg di farina
700 ml di acqua
0,5 g di lievito di birra
20 g di sale
ESEMPIO 1
Water roux al 10% (rapporto farina:acqua = 1:3)
Per il water roux:
100 g di farina
300 g di acqua
Impasto (al netto del roux):
400 g di water roux (100 + 300)
900 g di farina (100 g sono già nel roux)
400 g di acqua rimanente (700 – 300 già nel roux)
0,5 g di lievito di birra
20 g di sale
ESEMPIO 2
Water roux al 15% (rapporto farina:acqua = 1:4)
Per il water roux:
150 g di farina
450 g di acqua
Impasto (al netto del roux):
600 g di water roux (150 + 450)
850 g di farina (150 g sono già nel roux)
250 g di acqua rimanente (700 – 450 già nel roux)
0,5 g di lievito di birra
20 g di sale
Nota finale:
Non consiglio di superare queste percentuali (10-15%) per varie ragioni. Prima di tutto, l’acqua nel water roux diventerebbe eccessiva, sbilanciando l’impasto. Se si utilizza una farina di forza, si può arrivare anche fino al 20% di farina gelatinizzata, ma il risultato sarà un pane molto morbido e spugnoso, simile ai burger buns. Questo metodo viene infatti spesso usato per preparazioni vegane.
Ti ringrazio per la spiegazione dettagliata, quello che mi suonava strano era il rapporto 1:3 o addirittura 1:4 ma in effetti mi sono accorto che il 50% di acqua non è servita a niente ,un’ultima domanda, essendo che la temp del roux finito si aggirerebbe sui i 40 gradi, bisogna portarlo a temp più bassa o lo aggiungo ugualmente al totale della pasta,mettendola a TC? Grazie ancora
Il rapporto 1:1 rende il composto difficile da amalgamare, poiché la capacità di assorbimento dell’amido aumenta sensibilmente una volta gelatinizzato. Inoltre, anche utilizzando acqua bollente, la temperatura scende rapidamente al di sotto della soglia necessaria per la gelatinizzazione, soprattutto con quelle quantità d’acqua. Un rapporto 1:3 rappresenta un buon compromesso, anche per una gestione più agevole delle ricette.
Il composto deve poi raffreddarsi, idealmente fino ad arrivare almeno alla temperatura ambiente; meglio ancora se viene lasciato riposare in frigorifero. In questo modo si verifica una parziale retrogradazione, ma in compenso partire da una temperatura più bassa favorisce l’incordatura.
Quello che mi chiedo,mettere questa parte di impasto gelatinizzato in così poca percentuale porta dei benefici all’impasto?
Non si tratta di una percentuale bassa, è semplicemente quella necessaria per raggiungere lo scopo. Oltre, a mio avviso, si ottiene una consistenza eccessivamente spugnosa. Partendo dalla teoria, poi, si può sperimentare quanto si vuole. Superata una certa percentuale, però, l’acqua diventerebbe eccessiva. Materialmente, non credo si possa andare oltre il 30%, a meno di utilizzare una farina tipo Manitoba.
Facendo due conti: con 300 g di farina si otterrebbe un composto da 1.200 g, di cui 900 ml di acqua. Per bilanciare, bisognerebbe aggiungere altri 700 g di farina, arrivando così a un’idratazione del 90%. Con tanta pazienza e una buona impastatrice, si potrebbe anche riuscire a incordare l’impasto. Questa procedura estrema potrebbe avere senso per buns particolarmente dietetici, ma bisognerebbe provarla per verificarne la fattibilità.
Aggiungo che il prodotto, una volta gelatinizzato, può essere saccarificato e fermentato con batteri omofermentanti (a 50 °C). A quel punto si otterrebbe una soluzione concentrata di acido lattico, utilizzabile in combinazione con il lievito di birra (2%), con risultati sorprendenti sulla resa finale.
Le brioches vegan, all’epoca, le preparavo proprio così. Trovi materiale utile nella sezione dedicata alla segale: si tratta di un ampio archivio di articoli sulla panificazione russa con segale che ho deciso di rendere pubblici. Alcune di queste tecniche possono essere applicate anche al frumento, con un po’ di fantasia.
Intendevo una percentuale così bassa di farina gelatinazzata quali sono i benefici che porta ad un impasto?
Si anche io intendevo quella. Da morbidezza e spugnosità (effetto brioches). Immaginalo come un sostituto dell’olio, che ad alto dosaggio da anche lui morbidezza, aumento della shelf-life ecc. Sull’apertura agisce meno, anzi aumentando le dosi viene fuori in genere una mollica più cfitta.
Grazie per la pazienza, e complimenti per la passione che metti!