Il Silenzio: Un Viaggio Interiore
Le Parole che Non Ti Ho Detto

Ripescando tra i vecchi documenti, mi stupisco io stesso dei testi che trovo. Rappresentare per immagini il dolore non è semplice. Probabilmente allora prendevo spunto dai primi studi di filosofi e mi lasciavo andare in un dialogo immaginario che io stesso non compresi mentre lo scrivevo. Eppure, adesso emerge tutta la complessità dell’argomento che tratto e che vorrei riproporvi nelle forme del concetto, per dirla con Hegel, prima di farvi leggere lo scritto.
Per anni mi sono dedicato alla filosofia del linguaggio, al rapporto tra le parole e il mondo linguistico che ne viene fuori. Già Wittgenstein scriveva: “I limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio” (Wittgenstein, 1922, p. 52). In questo limite fissato dalle parole si sperimenta (erleben) l’assenza di significato, il paradosso dell’esistenza che porta al silenzio: “Ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (Wittgenstein, 1922, p. 63).
La Fine della Metafisica o un’Apertura di Senso Fuori dal Linguaggio?
Questo epitaffio sulla metafisica mi parve da giovane la risoluzione a tutti i problemi esistenziali, che semplicemente andavano sciolti. Bisognava cioè risolvere la costruzione paradossale di vincoli pragmatici per riorganizzare il senso e non già tentare di rispondere alla domanda che non avendo una risposta non può neppure formularsi come domanda: “D’una risposta che non si può formulare, non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può anche avere una risposta” (Wittgenstein, 1922, p. 43). Stolto non è il cieco, ma colui che si ostina a non vedere. Perché, in effetti, questa conclusione è per Wittgenstein non già una dissoluzione del problema, come vuole ampia letteratura dopo di lui, quanto piuttosto un capitolare della ragione, intesa come logos e linguaggio formale.
Il senso di questa capitolazione arriva infatti subito dopo: “Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo allora non resta più domanda; e appunto questa è la risposta” (Wittgenstein, 1922, p. 56). La dissoluzione del problema non è quindi il suo dileguarsi, ma il suo sotterrarsi, per così dire, il suo rifugiarsi nelle tenebre del “Mistico” che a questo punto diventa ineffabile: “Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico” (Wittgenstein, 1922, p. 61).
Il Linguaggio: Via d’Accesso Oltre Esso
Il linguaggio è allora una scala cui accedere per essa, oltre essa (Wittgenstein, 1922, p. 63). Il senso del mondo, dunque, nella capitolazione del linguaggio formale, giunge con la potenza del simbolo che è capace di trascendere il significato concreto della parola, aprendo “in alto” il senso del mondo. Di fronte al caos, che era prima del pensiero e che governa da sempre il mondo, la parola si fa silenzio, come suo limite estremo. Il silenzio è la più potente (nel senso di avere maggiori possibilità di significato) forma di comunicazione. È l’ultimo piolo della scala capace di aprire all’infinità dei significati che invece verrebbero tutti castrati dalla parola proferita (pensiero logico).
“Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere” non è dunque un monito, ma l’unico metodo corretto per accedere al Mistico, che si dischiude fuori dalle proposizioni della scienza naturale. Wittgenstein, infatti, osservava: “Il metodo corretto della filosofia sarebbe proprio questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque proposizioni della scienza naturale […]. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia, eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto” (Wittgenstein, 1922, p. 67).
La Fine della Parola: Un Incontro con il Mistico
In questa luce, la misteriosa conclusione della Tractatus acquisterebbe tutto il suo senso potente. La filosofia può dischiudere significati soltanto tacendo e così facendo lasciando che parli per lei il senso del mondo, quello stesso senso che piuttosto scompare una volta illuminato dalla luce del logos: “Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce tutte insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse” (Wittgenstein, 1922, p. 72).
Le Parole del Silenzio: Presenziare al Mistico
La questione che a questo punto sorge spontanea è: come comprendere l’ineffabile, questo “che cosa” che pare sfuggire ogni volta che pretendiamo di apprenderlo attraverso il pensiero. La domanda andrebbe posta tuttavia nei seguenti termini: “Come è possibile presenziare il mistico?” Imparare a presenziare ha qui il senso di rendere presente innanzitutto a sé stessi dopo averlo esperito, quindi secondariamente di poterlo anche comunicare, ovvero porlo nello spazio intersoggettivo della parola (mitwelt). A questo punto può giungere in soccorso il misticismo orientale, che qui per ragioni di semplificazione non tratterò.
Mi limito solo a far notare per ulteriori spunti di riflessione la stretta assonanza tra il monito wittgensteiniano e le parole di Lao-Tzu contenute nel Tao-te-ching: “Il Santo fa ciò che deve fare senza azioni, comunica i suoi insegnamenti senza parole” (Lao-Tzu, 6° secolo a.C., § 2). Una comunicazione senza azioni né parole pare raccogliere in forma suggestiva l’idea di una sospensione (epoché) largamente espressa da Husserl a fondamento della sua fenomenologia, ma ancora una volta introdotta da Hegel, nella sua fenomenologia.
Le Due Vie d’Accesso al Mistico: Elevazione e Alienazione
Il mistico può quindi essere appreso, ma non spiegato (erklären). Accedere ai piani più alti, oltre il proprio mondo, è quindi un esercizio pratico, un vissuto d’esperienza più che il risultato di un processo di comprensione. L’esperienza del mistico è la via dell’illuminazione, che suggerisce un’elevazione verso l’universale appreso come tutto. In questo senso, percorrere la strada all’inverso può voler dire precipitare piuttosto che elevarsi, sprofondare nel buio della notte piuttosto che accedere all’illuminazione. L’unione mistica con l’universale può trasformarsi in una mondanizzazione attraverso la quale il sé non si è dileguato per gradi e per sua stessa scelta, ma si è risolto interamente nel suo mondo (quello poco prima costruito dal suo linguaggio), che è lo stesso che dire che il mondo gli è venuto addosso.
Detto diversamente, la porta d’accesso al tutto è la stessa che permette l’incontro con il nulla, perché a guardarle bene le due cose coincidono. L’universale, infatti, nel suo primo apparire – questa la più grande lezione di Hegel – è “astratto” nel senso di “indeterminato” (Hegel, 1807, p. 102). Il primo rapporto dell’autocoscienza con l’assoluto posto come l’assoluto altro da sé è allora l’angoscia (vedi la dialettica signoria-servitù). L’indeterminato (apéiron), l’assolutamente altro dal sé, dischiude inizialmente la sua voragine e pare voler ingoiare l’Io in un tempo senza tempo, in un vacuo terrore senza fondo. È a quel punto che la coscienza saggia indietreggia e quella temeraria si ostina (eigensinn), secondo il movimento tipico della dialettica hegeliana. L’una diviene servo, l’altra signore.
Il Filo di Arianna e la Via del Silenzio
Comunque stiano le cose, resta fermo che il silenzio è l’estremo della parola, la cui assenza apre al “senso del mondo”. Rimane comunque il problema del linguaggio che esprime una direzionalità, di un tempo che scorre in una sola direzione, di un concetto che oppone a sé l’altro da sé. Insomma, resta il problema di come presenziare a sé stessi questo mistico ancor prima che agli altri. Presenziarsi per assicurare un ritorno al sé, dal movimento dell’alienazione, per dirla con Hegel (1807, p. 108). Arianna diede a Teseo un gomitolo di lana per poter segnare la strada percorsa nel labirinto e quindi uscirne agevolmente. Chi vuole percorrere quei luoghi, chi voglia calarsi sempre di nuovo nelle acque del dubbio, come può essere certo di risalire? Se il silenzio schiude il senso del mondo che è sopra il mondo come sua trascendenza (o sotto come voragine), come ritornare?
l silenzio è una forma di comunicazione che lega a sé l’altro. Può essere una forma di vendetta, può esprimere rancore, può essere l’unico luogo dove rifugiarsi nel caso manchino le parole. Il silenzio è la forma della meditazione, un’arte che eleva lo spirito al di sopra della riflessione, verso la contemplazione. L’afasia è una forma di equilibrio, la capacità di stare da soli con sé stessi. Il silenzio può essere una tortura quando è subito, una punizione quando è imposto, un’assenza, un vuoto, una privazione. Il silenzio, le parole che non ti ho detto, Riflessioni sull’esistenza.
Il Silenzio: Un Dialogo tra l’Io e il Sé
TU: Dovevo dirti una cosa, forestiero, ma non trovo le parole giuste e più mi sforzo e più non ho niente da dire.
STRANIERO: Sul serio non le trovi? E dove le hai perse?
TU: Non so, erano qui un attimo fa, dovevo dire cose eppure le ho perdute.
STRANIERO: Ma hai cercato bene? Era notte fino a poco fa.
TU: No, ho provato a parlare e non vengono più da sole. Accendi tu la luce, che io non so come si fa.
STRANIERO: Non ho la soluzione, le parole non mi son mai servite per parlare. (Additando le sue parole) Prendine qualcuna se ti può essere da giovamento.
TU: Non voglio le tue parole, avevo le mie, ma le ho perdute. Sapevo di dover ricominciare a contare, erano tre e adesso non ci sono più. Sai che vuol dire questo?
STRANIERO: No, cosa?
TU: Silenzio!
STRANIERO: Che significa? Non capisco!
TU: Significa che siamo perduti nel nostro ventre, che non c’è più niente da fare, soffocheremo nel nostro buio. Siamo prigionieri della notte, navi senza porto, logos senza parole! Chi ci trarrà in salvo dalla tempesta, chi riordinerà il caos, chi fornirà al nostro braccio il remo per navigare?
STRANIERO: Vaneggi, amico mio! La verità è che non c’era più nulla da dire, il tempo della disfatta era già concluso e tu non eri più nulla.
TU: Non dire così, non destare la mia rabbia, non ora che non posso più dirla; non lasciare che l’eco della vendetta ricada su di me ora che non può più fuggire! C’è sempre qualcosa da dire, seppur non si dica nulla. Ma perché non accendi la luce come ti avevo pregato di fare? Non ti vedo più!
STRANIERO: Cosa dici? Era notte un attimo fa. È sempre stata notte, a che serve la luce? Hai ancora bisogno delle tue bugie?
TU: Forse sì, ma non si può più mentire, non si può più sperare, non si può più parlare. Cosa mai ci fecero gli dèi?
STRANIERO: E che c’entrano gli dèi! Fu la tua distrazione a perderle, non lira di un Dio.
TU: Ti sbagli, amico mio, ti sbagli. Le ho usate per parlare, le ho gettate via e non son più tornate, sono finite. Dov’è ora il mio mondo? Come sarà possibile per me, d’ora innanzi, fissare un punto in questo eterno divenire? Chi assicurerà gli steccati del tempo? Con che cosa costruiremo i nostri ponti? Chi mi condurrà fuori da questa stanza? Povero me, povero stolto, ceco e senza mondo.
STRANIERO: Tu vaneggi! Questo è il tuo mondo, questo buio pesto sono i tuoi pensieri, queste pareti d’aria il tuo limite: tu non esisti! Sei sempre stato rinchiuso in questa gabbia e le parole ti hanno fatto da guardia. Dici di essere perduto, ma sei più vicino alla verità adesso che non vedi! Le parole ti hanno illuso e tu ci sei caduto, le frasi ti hanno dato l’aria che ingenuamente respiravi, la terra che calpestavi, la donna che amavi. Adesso sai dell’illusione che governa il mondo. Sai e non puoi più fuggire dietro a vane parole.
TU: Ho capito poco o nulla del tuo discorso strano. Dal tempo del mito e dietro la storia ci sarebbero solo parole? Sarebbe questa la cementite del nostro mondo? Tu menti. Chi sei?
STRANIERO: Sono colui che non ha nome e come potrei averne ora? Sono il niente che era prima dei tuoi pensieri, la parola che non ha nome, quella che non puoi dire. Sono la voce che non ha un’eco di ritorno.
TU: E dimmi ancora, che sono senza il mio mondo?
STRANIERO: Cosa c’era prima del mondo? Rispondi.
TU: Nulla, suppongo.
STRANIERO: No! In principio era il verbo e il verbo era presso Dio, eri uno dei suoi tanti pensieri, ma non eri ancora parola. Imparasti a denominare, ricevesti un corpo e un’anima. Non sei mai stato quello che credevi. Perché, in fondo, dietro i tuoi pensieri c’erano altri pensieri che reggevano i tuoi e poi ancora pensieri che reggevano i pensieri dei pensieri, e così via! Adesso che ti manca la parola, non puoi più mettere ordine tra i pensieri. Un caos informe era prima di te e un caos informe sarà dopo di te.
TU: Chi sei? Sei forse la Morte?
Riflessioni Finali
Il dialogo qui proposto tra l’Io e il Sé, oltre a esplorare temi filosofici, affronta la condizione umana di fronte al silenzio e alla perdita del linguaggio. L’assenza delle parole diventa simbolo di una crisi dell’esistenza, un vuoto che non può essere colmato. Questo testo suggerisce una riflessione sull’alienazione e sulla solitudine dell’individuo che si confronta con l’incapacità di comunicare, di trovare senso, in un mondo che sembra incapace di rispondere alle sue domande.
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