Il mare di Soraia.
Ancorché sembrasse spenta come i tizzoni di una brace ormai consumata, bastava scuoterla appena per risvegliare in lei quel calore che la contraddistingueva. Covava tutto dentro e, nel suo atteggiamento pacato, tratteneva una rabbia che non esplodeva mai. Era capace di calma, capace di far confluire dentro di sé tutte le sue energie in un unico punto. Per questo, ogni volta che centrava l’obiettivo, mirava dritto al centro, con precisione e consapevolezza del risultato, senza mai essere tradita dalla sua mira.
L’inverno, semplicemente, la spegneva come si fa con un interruttore. Il suo animo andava in letargo sopra il mare sempre in tempesta delle sue emozioni. Un ciclo si concludeva, e lei desiderava solo riposare. Tuttavia, quel calore lo custodiva dentro di sé, e nessuno era in grado di portarglielo via. Nemmeno quando, per incontrare l’altro, avrebbe voluto evitare di ustionarlo. Col tempo, aveva imparato a toccare con delicatezza, a mantenere la giusta distanza, affinché gli altri potessero godere del suo calore senza mai riuscire ad accedere al suo cuore.
Per farlo occorreva incoscienza, occorreva assoluta irrazionalità, occorreva essere tutto ciò che lei non era.
“Cosa ci fai qui?”
le chiese Tiago, guardandola con sospetto mentre osservava il suo sguardo cupo.
“Sono venuta a recuperare le mie cose.” Aveva imparato a tacere, dove le parole non sapevano arrivare. Aveva imparato a separare nel mare del silenzio il suo cielo dalla terra bruna. Il suo mare era sempre in tempesta, ma così poteva guardarlo senza scivolarci dentro, e così poteva guardarlo anche lui, senza rischiare l’ammaraggio.
“Te le avrei fatte consegnare io, ma non ho avuto tempo,” disse Tiago con un misto di freddezza e compassione. Sembrava fosse passata un’eternità da quel giorno, ma quel mare adesso c’era, ed era pronto a ingoiare tutto. Quel mare la difendeva, ma allo stesso tempo le impediva un vero incontro.
“Non ti preoccupare, ormai sono qui. C’erano due oggetti a cui tenevo: la barchetta e la nave in legno. Le aveva fatte mio papà, ai tempi in cui si frequentava con mamma.” Ai tempi in cui faceva finta di essere quello che non era, pensò tra sé. “Non sai per caso dove sono?”
“Quali oggetti? Io non ho visto niente.”
Questa volta Tiago sembrava sincero. “Tieni, qui ci sono tutte le tue cose.”
Soraia guardò distrattamente, e li vide lì dentro. Come aveva fatto a mettere via così in fretta le sue cose? si chiese. Come aveva potuto dimenticarsi di quegli oggetti e, tuttavia, metterli da parte lo stesso?
“Eccoli qua, proprio questi.” Se li ricordava fin da quando era piccola, riposti nella credenza della cucina. Ci giocava nelle tante giornate cupe e silenziose. Adorava quella barchetta, che immaginava capace di solcare ogni mare. Il gatto, in quella posa austera, sembrava aver colto l’anima stessa di sua madre, che suo padre ancora non conosceva, per sua sfortuna.
Lo fissò negli occhi questa volta. Il suo sguardo era di vetro. Non sentiva nulla, aveva silenziato tutto, aveva lasciato che la sua fiamma si spegnesse, per potersi avvicinare. Era fredda come la neve, gelida come la lapide che era appena stata posta sul loro amore.
Lo vide per la prima volta.
La sua non era mai stata una vera capacità di controllo; il suo equilibrio non derivava dal dominio su di sé. Tiago era sempre stato incapace di emozioni, di una vera empatia. Era sempre stato solo. Per la prima volta lo vide piccolo rispetto a lei. E si rammaricò di tutte le volte in cui si era affidata a quella terra come a un porto sicuro. Ora toccava a lei affrontare il mare, cavalcare quelle onde senza sapere bene dove andare.
Il segreto era non conoscere la strada e partire lo stesso.
“Addio” gli disse, uscendo da quella casa senza alcun indugio. Si allontanò da quel luogo che non era mai stato suo, per tornare finalmente a sé stessa, alla dimora di una casa che non aveva mai abitato prima d’allora.
Sono certo che i figli ereditino le colpe dei padri, e questi a loro volta dai padri dei padri, fino a risalire alla notte dei primi uomini. Non credo ci sia possibilità di redenzione che non passi attraverso il perdono. Perdonare sé stessi per i propri limiti, per ciò che non è andato come avrebbe dovuto, per ciò che giace in fondo all’anima, disperso come il pianto di un bambino. Perdonare la vita stessa, che ci ha gettato a caso in un mondo dove affrontiamo colpe non nostre, per poi crearne altre ancora.
Non c’è perdono che non attraversi la notte dei rimpianti, il lutto della perdita, la consapevolezza che, comunque sia andata, le scelte che abbiamo fatto raramente dipendevano davvero da ciò che volevamo. Niente è andato come avrebbe dovuto, eppure, almeno nelle intenzioni, qualcosa si è salvato. OMNIA VINCIT AMOR.
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